1. In principio fu Lajka
«La Russia è un indovinello avvolto nel mistero dentro un enigma». Da queste parole ci è noto cosa potesse rappresentare, all’occhio di un occidentale, l’URSS già prima della Guerra Fredda. Sennonché, le acute osservazioni di Winston Churchill rilasciate alla BBC nel 1939, anno della spartizione della Polonia, ci servono anche per capire la successiva nascita e gli sviluppi della cosmonautica (kosmonavtika) sovietica, rimasta in gran parte nell’ombra ben oltre la caduta del socialismo reale. Una considerazione di cautela dovuta, tra l’altro, alla fabbricazione di notizie depistanti da parte della stessa Unione Sovietica, nonché dall’avallo interessato di quest’ultima a notizie oggi dimostratesi false e costruite più o meno ad arte dal blocco occidentale durante e dopo la Guerra Fredda (vedi l’annosa vicenda dei cosmonauti morti in volo che un bel saggio di Luca Boschini, a cura del CICAP, ha contribuito definitivamente a sfatare). Tanto che, proprio la sfiducia nutrita sulle reali capacità sovietiche di realizzare con successo alcuni storici lanci, sarebbe stata compensata da un effetto boomerang capace di colpire duramente la macchina propagandistica statunitense e alleata.
Furono anni, quelli, senza esclusioni di colpi. Anni in cui gli Stati Uniti, in evidente affanno nella corsa allo spazio (che si scatenò principalmente sia per motivi balistico-militari che di prestigio internazionale), nel 1959 arrivarono persino a smontare, fotografare e rimontare, in una sola notte, un modello funzionante del satellite sovietico Luna-3 inviato a una mostra in Messico, complice il locale governo. Anche perché i russi, lo stesso anno, avevano già inviato nello spazio sonde in grado di fotografare il lato nascosto della Luna o prendere (sia pur in modo poco soddisfacente) i primi dati che confermavano l’esistenza delle fasce di Van Allen. Come se non bastasse, ancor prima, nel 1957, dopo una serie di tentativi falliti (va detto, con certo spreco di vite canine), erano riusciti a spedire nello spazio il primo essere vivente, la cagnetta Kudrjavka (“Ricciolina”), poi meglio conosciuta erroneamente – per un fraintendimento oltre cortina sulla razza cui forse apparteneva – come Laika. Quest’ultima fu lanciata sul secondo satellite artificiale (riadattato alla bisogna) della storia dell’umanità, lo Sputnik 2. Come ci si poteva aspettare, pur spegnendosi dopo poche ore nello spazio, la cagnetta divenne così famosa che ispirò, nel 1964, anche un omonimo modello di roulotte cui fu aggiunto lo stesso numero di serie della Fiat 500, la più piccola auto in grado di trasportarla.
Francobollo dedicato alla missione Luna-3
Francobollo su Laika e lo Sputnik
2. Jurij Gagarin e il vantaggio sovietico
Si sa che proprio a seguito di quelle sfide – che ne avevano sottolineato il grave divario tecnologico già con il lancio suborbitale dello Sputnik 1 – gli Stati Uniti decisero la definitiva riscossa nella corsa allo spazio con Eisenhower nell’estate del 1958. Tra l’altro, va detto, solo dopo aver riabilitato senza tanti peli sullo stomaco il geniale inventore delle V2 tedesche, il barone e criminale di guerra Wernher von Braun, già messo a capo, due anni prima, della governativa Army Ballistic Missile Agency (ABMA) per lo sviluppo del vettore Jupiter C.
Ma in cosa consisteva il vantaggio sovietico? Innanzitutto, nel fatto che la Rivoluzione d’Ottobre aveva dato, rispetto allo zarismo, nuovo impulso e credito alla ricerca scientifica e tecnologica. Fu, tra l’altro, rivalutata la figura del fisico Konstantin Ciolkovskij, vissuto in povertà e considerato pazzo dall’intellighenzjia zarista, ma capace, già nell’Ottocento, di formulare l’equazione fondamentale del volo a reazione e di porsi i primi problemi riguardanti la sopravvivenza nello spazio.
In seguito, Stalin, impressionato e intimorito dai progressi atomici statunitensi, diede impulso alla missilistica e pose in essere i primi Istituti di ricerca scientifici in tal senso. Così, anche i sovietici trovarono il loro von Braun in Sergej Korolëv e, successivamente, dopo una serie di frustranti alternative tattico-strategiche, la loro V2 nel vettore intercontinentale R-7. Questo ingegnere dalla mente brillante e visionaria aveva già sviluppato idee avanzatissime in merito ai voli spaziali ma, pur lavorando ai progetti, si era tenuto defilato per tutto il periodo staliniano, quando un errore anche banale avrebbe potuto costargli la carriera e la vita. Tuttavia, con l’ascesa al potere di Chruščëv – eliminato Berija, emarginata la vecchia guardia stalinista e finita l’era delle purghe – venne il suo momento. Korolëv, infatti, riuscì a convincere gli apparatčiki militari, scientifici e di partito – dai quali venne comunque sempre osteggiato in varia misura per via della sua propensione all’utilità civile dei viaggi spaziali – della bontà del lancio di un programma spaziale.
Altro fattore importante per l’avanzamento sovietico nella sperimentazione dei viaggi spaziali venne sollecitato non solo dalla costruzione di nuove stazioni di lancio (Kosmodrom) quale quella, solo per fare un esempio, di Bajkonur, ma pure dal bisogno di riavviare l’apparato propagandistico comunista voluto dal nuovo Segretario del PCUS.
Per i sovietici i tempi erano dunque maturi per il lancio in orbita del primo uomo nello spazio, anche perché erano filtrate notizie che gli americani si stessero preparando per lo stesso obbiettivo. Giocando d’anticipo e con buona dose di coraggio e azzardo, dopo serrata (e per certi aspetti, bizzarra) selezione, fu individuato come prima scelta Jurij Alekseevič Gagarin, già pilota dell’aeronautica, scelto in virtù delle sue capacità, altezza (1 metro e 57) e peso (richiesto minore di 72 chili). Il 12 aprile 1961, al momento della partenza della navicella Vostok 1, Gagarin comunicò a Korolëv il suo: “Andiamo!” (Pojéchali!). Il razzo mosse le sue 4 tonnellate e 700 di massa e si innalzò nel cielo, dove restò per 1 ora e 48 minuti alla velocità di circa 27.400 Km/h. Non molto, ma tanto bastò. Nonostante molteplici problemi tecnici, poi abilmente occultati, la volontà di Chruščëv di far partire la missione non poté essere elusa, nonostante le proteste e i rischi. E tuttavia, la frase del cosmonauta: “Il cielo è molto nero, la Terra è azzurra. Tutto può essere visto molto chiaramente”, fece il giro del mondo.
La macchina propagandistica sovietica poté far mostra dei suoi muscoli e dichiarare Gagarin, al suo ritorno, “Eroe dell’Unione”. Un ulteriore colpo per il programma spaziale statunitense, in palese ritardo; ma anche un grande stimolo competitivo che li porterà, una manciata di anni dopo, a metter piede sulla Luna.
Valentina Tereškova in tuta spaziale
Francobollo celebrativo dedicato a Valentina Tereškova
3. 16 giugno 1963: la prima donna
Uno dei primi risultati importanti della competizione venne colta dagli USA già nel 1962 con il lancio in orbita dell’astronauta John Glenn, a bordo della missione Mercury-Atlas 6, che orbitò intorno alla terra per quasi 5 ore effettuando tre orbite come Gagarin. Un lancio che poté riuscire, tra l’altro, anche per l’aiuto dato da Khaterine Johnson, Mary Jackson e Dorothy Vaughan, tre geniali matematiche afroamericane estremamente versate nel calcolo (quelle, per intenderci, celebrate nel film Hidden figures, uscito nelle sale italiane col titolo Il diritto di contare).
Tuttavia, già nel 1960 i sovietici, mentre pensavano a una missione lunare (circumnavigazione e atterraggio), avevano già fatto alcuni tentativi – falliti per l’inadeguato sviluppo tecnologico del tempo e per l’eccessiva pressione ricevuta sui tempi di realizzazione – di mandare sonde su Marte e su Venere. Insuccessi che, però, colpirono negativamente anche la macchina propagandistica di partito costringendola a fumose giustificazioni. A quel punto, considerato il manifesto ritardo statunitense, gli uomini di Chruščëv ritornarono sul militare ignari che, dal punto di vista dei satelliti spia, gli americani stavano facendo molto meglio per organizzazione (tenendo distinto il civile e il militare) e per mentalità (i generali russi erano sempre convinti che gli armamenti fossero più utili della perlustrazione aerea). Nel frattempo, gli uomini di Korolëv cominciarono a progettare capsule pensate per poter essere manovrate in autonomia e capaci di agganciarsi l’una all’altra (progetto Soyuz, “Unione”).
Come ha ben scritto Luca Boschini, verso la fine del 1961, il generale Kamanin, a capo della selezione dei piloti, avanzò la proposta per sedici nuovi cosmonauti. “L’idea era caldamente sostenuta da Chruščëv, che voleva mandare nello spazio non solo una donna, ma una civile, una semplice lavoratrice che rappresentasse il popolo, in modo da comunicare con un solo gesto l’egalitarismo comunista, l’affidabilità e la semplicità della tecnologia sovietica”. Fu così che la selezione degli uomini fu messa in attesa per consentire la ricerca di donne in “tutti i circoli di aviazione e paracadutismo della nazione. L’iniziativa mandò su tutte le furie Korolëv” che si era sempre affidato a piloti professionisti “sottoposti a rigidi e accurati test psico-fisici” e non a quelle che gli sembrarono, non del tutto a torto, delle dilettanti. Tuttavia, il 28 febbraio del ‘62 vennero scelte cinque ragazze brevettate paracadutiste che avrebbero dovuto svolgere una missione Vostok comunque automatizzata e diretta da terra e con solo lancio dalla capsula al momento del rientro: Tat’jana Kuznecova, Valentina Ponomarëva, Irina Solov’eva, Žhanna Ёrkina e Valentina Tereškova. Il resto, il mito, lo avrebbe costruito la propaganda, per cui, occultando con accortezza l’automatizzazione, il comunismo avrebbe dimostrato che chiunque avrebbe potuto far volare un razzo nello spazio.
A questo punto, il maschilismo degli apparati militari e del PCUS da una parte e alcuni personalismi dall’altra crearono un clima che incise a lungo sulle successive scelte per la cosmonautica femminile. Intanto, la trovata di Chruščëv creò risentimento nei molti che si erano duramente preparati per un volo: vedersi scavalcati da una donna, sia pure “figlia del popolo”, non andò giù a parecchi. Inoltre, creò grandi frizioni nel gruppo delle stesse prescelte, anche perché fu ben presto chiaro che solo una – per scelte del Comitato Centrale che mandarono su tutte le furie Kamanin – avrebbe potuto eseguire orbite attorno alla Terra nonostante fosse previsto un lancio doppio di due cosmonaute.
Quello che rimane singolare, ancora oggi, fu la scelta che orientò i selezionatori. Una scelta dove l’ideologia, pur non osteggiando il volo femminile (tanto che, durante la Seconda guerra mondiale, all’occorrenza, furono alcune pilote a portare i bombardieri russi sugli obiettivi), ebbe un peso dirimente a vari livelli. Se, infatti, allo stato delle referenze e delle durissime prove finali era stata la Ponomarëva a spiccare, fu poi la Tereškova a realizzare la missione. Perché? Intanto perché, fu detto, la prima aveva già un figlio, circostanza che fece temere il caso di un lancio fallito. Eppure, non fu scelta neanche come cosmonauta di back-up, perché, in realtà, molto contarono l’intromissione di Kamanin e certe idee del Segretario del PCUS.
Valentina Ponomarëva, fumatrice, femminista, era di famiglia relativamente agiata, proveniente dalla vecchia borghesia russa, colta e indipendente e, perciò, invisa allo stalinista Kamanin. Pare, infatti, che alla domanda fattale dal generale: “Cosa vuoi dalla vita?”, Valentina rispondesse in modo inappropriato: “Voglio prendere tutto ciò che può offrire”.
Le fu preferita un’altra Valentina: Tereškova; e Irina Solov’eva come seconda. Perché? La Tereškova era figlia di un carrista morto, nel ‘39, nella Guerra d’inverno contro la Finlandia quando aveva soli due anni. La vita non le aveva riservato un’infanzia facile: aveva iniziato la scuola solo molto tardi, lavorando prima in una fabbrica di pneumatici, poi in una di fili per cucito come sarta per cappotti, poi stiratrice e telaista. Già a ventidue anni appassionata paracadutista (128 lanci), ammiratrice di Gagarin, appassionata pilota, Valentina era un profilo perfetto di proletaria operaia: donna modesta, socievole, vicina ai valori tradizionali della moglie e della madre socialista, ma anche caparbia, tenace, capace di grande applicazione e sacrificio per ridurre il divario tecnico con le altre colleghe. E poi apparteneva alla “Lega dei Giovani Comunisti”, organizzazione cara a Chruščëv, tanto che quando Kamanin la interrogò, a differenza della Ponomarëva, ebbe a rispondere: “Sostenere irrevocabilmente il Partito Comunista”. E c’è da crederle, se nella sua successiva carriera politica nel PCUS e poi tra le fila delle organizzazioni filo-Presidenziali, nel marzo 2020, è risultata firmataria dell’emendamento costituzionale sui mandati presidenziali favorevoli a Vladimir Putin per mantenerlo nell’incarico fino al 2036.
Ciò non toglie che la Tereškova riuscì a eguagliare in addestramento i colleghi di sesso maschile e che, a bordo della missione Vostok 6 del 16 giugno 1963, stracciò ogni record statunitense: partita dal cosmodromo di Bajkonur trascorse, infatti, tre giorni interi per complessive 49 orbite, pur vomitando e rischiando di abbandonarsi al sonno a causa di quello sconosciuto “mal di spazio” dovuto all’assenza di gravità che attanagliò, comunque, un buon numero di altri colleghi maschi. Dopo aver “incrociato” la Vostok 5 di Valerij Bykovskij in quel volo doppio che avrebbe dovuto essere tutto al femminile, Valentina atterrò in Kazakistan il 19. Fu soccorsa da contadini di un villaggio vicino che l’aiutarono a sganciare il suo paracadute (le Vostok non atterravano con il cosmonauta a bordo).
Pur scoprendo, in seguito, che aveva commesso molti errori, non riferendo “le manovre compiute dal pilota automatico”; aprendo la visiera del casco prima di giungere a terra “violando le procedure di sicurezza” e facendosi ferire al volto (portata prima in ospedale e poi in parata fu pesantemente truccata); offrendo parte del suo cibo ai suoi soccorritori rovinando l’esperimento per valutare “il suo cambio di peso e correlarlo con le calorie consumate”; era fatta! La donna aveva dimostrato di poter volare in orbita per circa 70 ore in assoluta immobilità, di farlo come gli uomini e saper tornare, palesando, al contempo, che “la disuguaglianza di genere è semplicemente un costrutto sociale e non l’ordine naturale delle cose”. E forse fu per questo che per diciannove anni nessuna cosmonauta tornò più lassù…
Ma come mai la concorrenza spaziale statunitense, così agguerrita su altri piani, dovette aspettare solo il 1983 per portare una donna nello spazio? Perché anche al di qua della Cortina pesanti ragioni ideologiche richiesero il loro dazio. C’è da sottolineare, intanto, quanto gli astronauti fossero tutti provenienti dai corpi dell’aeronautica militare, di conseguenza parecchio lontani da ogni ottica di apertura, sia pur minima, alle donne. È un fatto che proprio John Glenn – il quale aveva richiesto, prima di partire per la sua missione, il parere della matematica Khaterine Johnson – esprimesse così il suo parere sfavorevole davanti al Congresso: “Gli uomini vanno a combattere le guerre e volano sugli aerei, le donne restano a casa. È un fatto del nostro ordine sociale”. E, se forse fu fatto oggetto di pressioni, certo nemmeno vi si ribellò.
Va però detto che anche gli USA, all’inizio degli anni Sessanta, selezionarono 13 donne per missioni di esplorazione spaziale, ma dopo settimane di test il governo emanò l’obbligo per gli astronauti di dimostrare almeno un certo numero di esperienze come piloti collaudatori militari, settore negato alle donne. A ogni protesta, a ogni appello l’allora vicepresidente Lyndon Johnson rispose “Adesso smettiamola!” e il Presidente John F. Kennedy si rifiutò persino di vedere ogni sostenitore di un programma spaziale al femminile.
Inoltre, fu fatta una fondamentale distinzione tra gli uomini e le donne che accedevano ai test. Mentre gli uomini furono sollevati dai loro doveri militari per partecipare, le donne dovevano mantenere il segreto, non avendo possibilità di dire a chi di dovere perché se ne andassero e perché, poi, chiedessero il reintegro. Alcune furono perfino lasciate dai mariti che avevano, nel frattempo, subito minacce e pressioni. Eppure, prima che la Marina in accordo con la NASA li interrompesse, avevano superato i durissimi test (per esempio, iniezioni di acqua fredda nelle orecchie per simulare vertigini) bene quanto i loro colleghi.
Alla fine, la più promettente tra loro, Jerrie Cobb, lasciò il paese; Jane Hart diventò “Direttrice fondatrice della National Organization for Women”; Wally Funk “un’investigatrice per il National Transportation and Safety Board”; Jerri Sloan Truhill si trasferì a Dallas, battendosi poi perché “le donne abbiano il dovuto alla NASA. Dal momento che le donne costituiscono solo il 20% del corpo degli astronauti oggi, c’è ancora un po’ di sessismo residuo”. E tuttavia, nel 1978 le porte furono riaperte fin quando Sally Ride – bellissima, sportiva e iconica come solo molte donne statunitensi sanno essere – non poté effettuare il suo lancio nel 1983 affermando di essersi appoggiata proprio sulle spalle di quelle gigantesche 13 astronaute mai partite.
Ai sovietici, dopo aver perso definitivamente la corsa alla Luna per poi spostarla su obiettivi di resistenza e resilienza nello spazio presso la stazione orbitante Mir, non restò che bruciare gli ultimi record tutti femminili, quelli segnati dalla cosmonauta Svetlana Savickaja: seconda donna nello spazio, “prima donna a volare su una stazione spaziale (Soyuz T7 – Salyut 7, 1982), prima donna a compiere una passeggiata spaziale” (25 luglio 1984, per più di tre ore e mezza operando saldature) e “prima donna a fare due voli spaziali”. Una cosmonauta per altro eccezionale, Svetlana: figlia di un pilota pluridecorato della Seconda mondiale, paracadutista già a 16 anni, in un anno consumò ben 450 lanci, stabilendo, a 18 anni, “due volte il record di altitudine di lancio stratosferico da 13.800 e poi da 14.250 metri” e bruciando record su record anche su un MiG dove stabilì, nel 1975, i 2.683 km/h di velocità.
Svetlana Savitskaya
Francobollo celebrativo delle missioni 1982 con Svetlana Savitskaya, Leonid Popov e Aleksandr Serebrov
Bibliografia consultata:
Boschini Luca, Il mistero dei cosmonauti perduti. Leggende, bugie e segreti della cosmonautica sovietica, Cicap, 2013;
“The ‘Common Touch’: Selecting the First Woman Cosmonaut” by Ben Evans, “AmericaSpace. For a nation that explores”, June 8th, 2013;
“They Trained for Space: But LBJ Said No Women” by Claudia Feldman, “Houston Chronicle”, July 1, 2003;
“The Astronaut Bride” by Amy Davidson Sorkin, “The New Yorker”, July 25, 2012;
“A Ride In Space” by Michael Ryan, “People Weekly”, June 20, 1983;
Wikipedia alle voci: “Luna-3”, “Laika”, “Jurij Gagarin”, “Valentina Tereškova”, “Svetlana Evgen’evna Savickaja”, “Mir”, “List of female spacefarers”.
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