Gustare il festival senza guastarsi la festa
Achille Lauro con accompagnamento floreale
Già le sento le critiche: “Ma è un’epidemia!” “Basta! Anche voi a parlare di Sanremo.” “Non se ne può più!” E via dicendo, maledicendo, insultando. Ma è un fenomeno di massa, visto dalla bellezza di 40.000.000 di persone e, dato che il sottoscritto, seppur da sempre pecora nera, non vuol vivere in una riserva indiana ma ama confrontarsi, provo a provocare.
Sanremo è un marchettone dell’industria discografica italiana.
Si fa a botte per andarci perché, anche se si arriva ultimi, la visibilità è garantita come le vendite del brano presentato in qualsiasi piattaforma lo si renda.
Risento le critiche: “Che schifo!” “Non sono musicisti ma mercenari.” “L’arte non si vende!” Sarei anche d’accordo.
Ma sarebbe un altro mondo quello che pensate, di gran lunga migliore di questo, dove invece è il mercato a dettar legge. Cos’è oggi un festival del cinema se non un marchettone? E le fiere dell’editoria o alcuni premi di varie arti? O una qualsiasi mostra il cui unico scopo è vendere, vendere, vendere? Allora, visto che comunque, volenti o nolenti, viviamo tutti in questa dimensione, tanto vale non farci prendere dalla puzza sotto il naso ma vedere la realtà con gli occhi del realismo.
Sanremo da tanti anni non è più una melensa rassegna della melodica canzone italiana (che comunque qualcosa di buono l’ha pur creata) ma si è evoluto con i tempi. A parte il grande Luigi Tenco, hanno partecipato Jannacci, Gaber, il grande del r&b Wilson Pickett, Vecchioni che vinse anni fa, fino ai più recenti Moro, Mannoia, Silvestri. L’alta qualità è stata garantita anche dagli ospiti stranieri, da sempre i più talentuosi del momento. Parlo di Led Zeppelin, Peter Gabriel, i Queen, i Depeche Mode, Bruce Springsteen, U2, David Bowie, Elton John, solo per citarne alcuni e per far capire che la marchetta si fa, a prescindere dalla dimensione artistica.
Chi vuole esprimersi vuole un pubblico a cui rivolgersi e, senza di esso, puoi essere il migliore del mondo ma rimani un derelitto emarginato.
L’artista, qualunque sia il suo campo, vuole esprimersi e ha bisogno di spazi per farlo. Nell’aridità che ci circonda e che tutto omologa ben venga qualsiasi luogo. Anche il marchettone patinato di Sanremo. La differenza la fa chi si esibisce, non la cornice o il contenitore.
Questa edizione sconta colpe non sue: la recrudescenza del Covid, la grande crisi economica conseguente e la sensazione sempre più palpabile d’una precarietà diffusa a qualsiasi livello.
Amadeus e Fiorello provano a districarsi in questo ginepraio ma non è facile riuscirci e la malinconia, l’angoscia di noi tutti, fa capolino spesso tra cerone, lustrini e fiori. La scenografia pensata tempo fa, con il teatro vuoto risulta anche bella ma troppo fredda e, in parte, deprimente. I cantanti, gruppi e musicisti hanno fatto del loro meglio. Le cover hanno evidenziato i grandi talenti.
I Maneskin con Agnelli, per me vecchio rockettaro, su tutti. Ma anche Fedez e Michielin, Irama col Cirano di Guccini e voce fuori campo del Maestrone (prima volta a Sanremo), Gazzè con Silvestri, lo Stato Sociale che, come Elio e le storie tese del recente passato, sanno divertire con intelligenza. Poi le performance di Achille Lauro che non sempre mi convince ma spesso riesce a fare ciò che si prefigge: comunicare anche con il trucco del viso, i costumi, la gestualità fondendo in lui le esperienze del glam rock che furono di Bowie e in parte di Zero.
Avete ancora la puzza sotto il naso? Un bell’Arbre Magique appena sotto le narici e passa tutto! Poi, se profumato ai fiori di Sanremo…
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